Testo completo
title
Circondata da una serie di colline disposte ad anfiteatro, che culminano a monte del Castello di Lagopesole, la Valle di Vitalba è dominata da Vulture, il complesso di origine vulcanica che si innalza maestoso a nord dai 700 metri s.m. fino al 1.263 metri del Pizzuto S.Michele ed ai 1,330 metri del Pizzuto di Melfi.
Amministrazione Comunale di Atella 1988 – La Storia, i Monumenti, le Tradizioni” scritto da dott. Costantino Conte
Sorge al centro della Valle di Vitalba, l’ampia e pressoché pianeggiante vallata che si estende da Lagopesole al Vulture che prende il nome da un casale (VITALBA) che sorgeva su una collinetta (colle di S. Marco) vicina alla fiumara, scomparso alla fine del 1200.
La cittadina nacque tra il 1320 ed il 1330, nell’ambito della riorganizzazione demica voluta dagli angioini nel Regno di Napoli. In principe Giovanni d’Angiò, sestogenito di re Carlo II, conte di Gravina e signore di S. Fele, Vitalba ed Armaterra, circa nel 1322 emano un Bando per incrementare la popolazione atellana, promise l’esenzione fiscale per 10 anni a coloro che si sarebbero trasferiti nella città che stava facendo edificare. Tale intuizione fu un enorme successo, infatti, a frotte accorsero ad Atella, intere famiglie provenienti da tutti i casali prospicienti la valle, “propter libertatem quam consequabatur” (leggi:per la libertà che si conseguiva).
La promessa ottenne l’effetto sperato. Oppressi dalle angherie e prepotenze dei feudatari gli abitanti dei casali (Rionero, Caldane, S. Marco, Balvano, S. Sofia e S. Andrea) e dei castelli (Masona, Armaterra, Lagopesole, Agromonte, Montemarcone, Monticchio dei Normanni) circostanti li abbandonarono e si trasferirono in gran numero nella città che stava sorgendo.
Ancora nel Cinquecento “molte casate de Cittadini antiqui de Atella” erano conosciute col nome del casale di provenienza perché chi venne “ad habitare in Atella … se piglio lo cognome della sua patria”, e una strada della città che “principia(va)… dallo castello … e cala(va) dritta a bascio verso la Chiesia de Santo Vito et tene(va) grandezza et habitatione assai” era detta “strada dei casali” poichè “ge habitavano la gente delli casali … che vennero ad Atella ad abitare”.
Quella indicata è la data certa di fondazione della città. Tuttavia in passato si è creduto che ATELLA fosse stata fondata nel III sec. a.C. da profughi dell’omonima città campana, o che fosse sorta sulle rovine di un’altra città (Celenna). Queste ipotesi, che sembrano trovare conferma in alcuni ritrovamenti archeologici (una necropoli del IV sec. a.C.; un sarcofago d’epoca imperiale romana, oggi conservato nel Museo Nazionale di Napoli), allo stato dei fatti sono prive di fondamento. Per la volontà del fondatore, che volle la città “forte di mura e bella di vie simmetriche”, per la fertilità del terreno e per la “industria ed arte” dei suoi abitanti, Atella diventò un centro assai importante sia sotto il profilo economico che militare.
Nel Trecento e nel Quattrocento era una delle cittadine più ricche della Basilicata (pagava, infatti, più tasse di ogni altro paese della regione); numerose erano le chiese (oltre alle chiese parrocchiali di S. Maria, S. Nicola e S. Eligio, nel Quattrocento vi erano ad Atella le chiese di S. Leonardo; S. Vito; S. Francesco della Scarpa, altrimenti detta “Crocifisso”; Annunziata; S. Maria degli Angeli; S. Caterina; S. Giovanni, con annesso ospedale; S. Maria di Perno in moenibus; S. Martino; S. Maria di Vitalba; S. Aloia; S. Felice) ed i conventi esistenti nel territorio cittadino (quello di S. Agostino, degli Agostiniani, presso la chiesa di S. Vito; dell’Annunziata, dei Domenicani, presso la chiesa omonima; di S. Francesco della Scarpa, dei Francescani Conventuali, presso la chiesa del Crocifisso; di S. Maria degli Angeli, dei Francescani Regolari, cui nel Settecento successero i Cappuccini, presso la chiesa omonima; di S. Maria di Vitalba, dei Francescani Regolari, trasferitisi ai primi del Cinquecento a S. Maria degli Angeli, cui successero, sia pure per breve periodo, i Carmelitani; di S. Spirito, delle Benedettine di clausura; di S. Michele in Vulture, dei Benedettini prima, dei Cappuccini dopo, possessore in Atella di una “grancia”, o ospizio, con annessa l’innanzi citata Chiesa di S. Felice).
In quel periodo vi si svolsero importanti avvenimenti (gli assedi del 1361 e del 1496); i prodotti del suo territorio (cereali, formaggi, carni suine insaccate) raggiungevano importanti piazze del Mezzogiorno d’Italia; diversi atellani ebbero contatti con alcune corti principesche italiane. Le cattive cure che le dedicarono i feudatari a partire dal Cinquecento (dopo essere stata a lungo feudo dei Caracciolo, Atella dal 1530 cambiò più e più volte di mano, passando da Filiberto Chalon ad Antonio de Leyva, ai Gesualdo, a Giulio Cesare di Capua, a Giovan Battista Caracciolo della Gioiosa, ai Filomarino fino ai Caracciolo di Torella, che l’hanno posseduta fino all’eversione della feudalità), che scaricarono sulla cittadina e sui suoi abitanti il peso della fiscalità spagnola e del loro indebitamento; i terremoti (in particolare quello del 1694, che distrusse quasi completamente la cittadina); la malaria; la crisi delle attività economiche (agricoltura e allevamento), provocarono una progressiva decadenza della cittadina, che non ritornò più ai fasti di un tempo.
Gli assedi di Atella
Nei primi secoli della storia della cittadina, a conferma della sua importanza anche militare, ad Atella si svolsero due importanti avvenimenti: gli assedi del 1361 e del 1496.
L’assedio del 1361 si inquadra nell’ambito dei contrasti e delle lotte che caratterizzarono il reame di Napoli durante il regno della volubile regina Giovanna I. La instabilità fece sentire le sue ripercussioni su tutta la regione del Vulture: Rapolla, infatti, venne saccheggiata ne11355, mentre Melfi sopportò cinque lunghi mesi di assedio.
Protagonisti dell’episodio furono Anichino di Bongardo, capitano di ventura che in passato aveva servito diversi principi italiani, e Niccolò Acciaioli, esponente di una famiglia di banchieri fiorentini che per l’appoggio finanziario dato ai reali di Napoli era diventato gran siniscalco del regno e dal 1348 feudatario di Melfi.
Anichino era sceso al sud con una folta schiera di mercenari su incitamento di Ludovico di Durazzo, secondogenito del fondatore di Atella, che insieme al re d’Ungheria contendeva il trono di Napoli a Giovanna I.
Lasciata Salerno, Anichino si era rifugiato a Melfi e da lì si era messo a devastare tutta la zona circostante. La defezione di alcuni mercenari lo spinse a raggiungere Atella e ad asserragliarvisi, mentre Ludovico raggiungeva Monte S. Angelo.
Per evitare alla regina ulteriori problemi, l’Acciaioli divise le sue forze. Con parte dell’esercito raggiunse Atella e la cinse d’assedio; il figlio Luigi, col resto delle truppe, andò ad insidiare il rifugio di Ludovico di Durazzo.
Acciaioli, costretto Anichino alla fame, espugnò Atella; il figlio invece conquistò Monte S. Angelo facendo prigioniero lo stesso Ludovico, che morì in carcere l’anno successivo.
Niccolò Acciaioli così in una lettera del dicembre 1364 ricorda l’avvenimento: Anichino con la “sua companea di predoni…die et nocte cavalcando e per vie peregrine si ridusse intro una terra di messer Loysi, que si clama Atella. Eo con displicenza sudendo, imperò que me pensava di trobarli in campo, di presente fui davanti alla terra predetta de Atella, la quale è forte assai… e incitandoli a preliare con noi, e vedendo la loro rimissa contenenzia, io missi l’asseggio davanti la detta terra. Et ibi permanendo per ispazio d’alcuno dì, tanto che lo nostro campo fosse sì fortificato que eo potesse mandare parte della gente que meco era a fare la guerra a messer Loysi di Durazzo, et eo remanente nello detto campo allo asseggio della detta companea, mandai lo conte di Malta meo filio con parte della gente que meco era nella montanea di santo Angelo, ladove era lo dicto messer Loysi, a farlo astringere alla città dello detto monte ladove dimorava, et ita factum est; imperò che conbattendo in campo colla gente dello detto messer Loysi fu la detta gente per ipso sconficta et presa… lo decto Anichino con la sua companea soctu lo giogo del bandera degli miei signiori poveri et mendici derelinquendo lo dicto messer Loysi furono costrecti a umilmente uxire fore dello Reame, nello quale con tante superbe speranze erano discurrendo per tucto entrati”.
Più di un secolo dopo, nel 1496, si svolse ad Atella lo scontro decisivo per la conquista della leadership sul mezzogiorno d’Italia fra i francesi, che erano scesi nel Regno di Napoli favoriti dalla frattura latente tra la classe baronale e la corona, e gli spagnoli. La costituzione di una potente lega antifrancese tra Spagna, Venezia, Papato, Ducato di Milano e Impero Asburgico creò seri imbarazzi a Carlo VIII, che aveva conquistato “col gesso” l’Italia meridionale. Costretto a ritirarsi prima che gli venissero tagliate le vie di comunicazione con la Francia, Carlo VIII lasciò parte delle sue truppe, comandate dal duca di Montpensier, in Irpinia. Incalzato dalle forze della coalizione, Montpensier cercò allora di raggiungere i porti pugliesi e si fermò nel melfese. Atella venne occupata dopo una trattativa e nonostante questo saccheggiata il 18 giugno 1946. Qui i francesi avevano maggiori possibilità di difesa e di controllo della via per Venosa da dove ricevevano i rifornimenti. Precedute dall’avanguardia composta da truppe della Repubblica di Venezia, il 23 giugno giunsero sotto le mura di Atella le truppe della coalizione, che bloccarono la città per tre lati, occuparono la strada per Venosa e bruciarono alcuni mulini lungo la fiumara, per prendere i francesi per fame. Risultati vano i tentatiti di rompere l’accerchiamento, nel corso dei quali i francesi sacrificarono molti uomini, il blocco divenne più duro dopo la resa di Ripacandida (8 luglio 1946), la distruzione dell’ultimo mulino che riforniva di macinato la città e dopo l’occupazione dalla chiesetta di S. Maria di Vitalba, difesa avanzata dei francesi a guardia della fiumara. Ridotto alla fame, sottoposto a cannoneggiamenti continui e senz’altra via di scampo, il 14 luglio Montpensier avviò le trattative per la resa, che si conclusero il 20 luglio con una intesa. In base ad essa i Francesi, non avendo soccorsi dal loro re nel giro di un mese (termine poi ridotto a 19 giorni), avrebbero lasciato Atella, addandonandovi armi e munizioni, e rinunciato alle conquiste fatte in cambio della vita e della possibilità di ritornare in patria. Iniziato il 23 giugno, l’assedio di concluse il 2 agosto con grande sollievo della popolazione che per tutto questo tempo patì stenti inenarrabili. E’ interessante notare come tra i due assedi, che accadono a più di cento trenta anni di distanza, vi siano diversi elementi di somiglianza. Anzitutto la circostanza che gli assedianti giochino con gli assediati (Anichino prima e Gilbert de Bourbon e Virginio Orsini poi) come il gatto col topo. Essi utilizzano infatti una tattica di sfiancamento, di logoramento, fatta di operazioni di disturbo in attesa della occasione propizia, che faceva leva sulle discordie che sarebbero venute naturalmente emergendo all’interno di una compagine composita come quella guidata da Montpensier e che alla lunga si rivelerà vincente. In secondo luogo la circostanza che gli assedianti tagliano le vie di comunicazione con i possibili centri dai quali potevano venire aiuti agli assediati, che sono così costretti a cedere per la penuria di viveri. Inoltre le defezioni e le divisioni fra le forze assediate. Se Anichino “per certe dissensioni” perse nel 1361 il sostegno di un gruppo di 400 soldati ungheresi che finirono “per pecunia” con l’accordarsi con Niccolò Acciaioli, nel 1496 le fughe da Atella erano, come risulta dalla documentazione dell’epoca, pressoché quotidiane. Da ultimo, la circostanza per cui i due vincitori, Luigi di Taranto e Ferrandino d’Aragona, poterono godere per breve tempo della vittoria conseguita in quanto morirono a poche settimane da essa. In ricordo di questi due avvenimenti, nello stemma di Atella compare una leonessa, simbolo di fortezza, che regge con la zampa destra sollevata una palla di cannone.
I terremoti
Atella, che già aveva dovuto sopportare le conseguenze dei movimenti tellurici avvenuti nel 1343 e 1348, venne gravemente danneggiata dal sisma del 5 settembre 1456.Cento anni dopo, il 19 agosto 1561 vi fu un altro disastroso terremoto. In quell’occasione cadde “il Monistero di S.Agostino” – con ogni probabilità allora, nella ricostruzione del monastero, venne murato l’affresco quattrocentesco della Madonna Riparatrice di Atella, ritornato miracolosamente alla luce, manco a dirlo, in occasione del terremoto del 1851 – e vi furono anche quattro morti.
Alla fine del Seicento – dopo che i terremoti del 1600 e del 1654 fecero molti danni e dopo che il sisma del 5 giugno 1688 abbatté ventisette case ed il campanile della chiesa di S. Vito – la città fu sconvolta dal “gran terremoto” dell’8 settembre 1694. Cento le vittime e numerosissimi i feriti che fece quel sisma; ingentissimi i danni che esso provocò alle strutture urbane: negli appunti di G. Fortunato si legge che rimasero in piedi solo “quattro o cinque sottani adibiti a magazzeni”. Caddero in quella occasione la chiesa di Santa Maria di Vitalba (i cui ultimi ruderi rovinarono col terremoto del 1732), la chiesa di S. Eligio, il coro e il campanile della Chiesa Madre, la chiesa e il convento dell’Annunziata dei Domenicani, il convento di S. Maria degli Angeli dei Riformati (soltanto questo risorse, per volere e a spese dell’Università, il 1706). Il castello, già ampiamente danneggiato, fu ulteriormente rovinato dalla scossa verificatasi alle ore 22 di tre giorni dopo. Dopo il terremoto del 1694 non solo le Benedettine di Atella, ma anche molti abitanti della cittadina si trasferirono a Melfi che, seppure anch’essa danneggiata, evidentemente presentava migliori condizioni di vivibilità. La città venne danneggiata dai terremoti del 1851, 1857, 1930 e 1980.
La Malaria
Mentre i terremoti, con la loro frequenza e le distruzioni arrecate, producevano rilevanti alterazioni non solo al tessuto urbano ma anche civile della città; effetti devastanti sugli atellani e sulla loro capacità primaria di utilizzo delle risorse producevano, invece, le virulente manifestazioni della malaria. I dati certi sugli effetti di massa prodotti ad Atella dalla malaria risalgono solo alla fine dell’Ottocento, tuttavia è sicuro che essi si manifestarono in zona ancor prima che Atella nascesse, se causarono la scomparsa di Vitalba prima, di Armaterra dopo; se Atella venne costruita “non più nelle bassure di una volta, ma sul più alto della sponda destra (della sua fiumara)”, nella speranza, risultata vana almeno fino all’avvento nel secondo dopoguerra del d.d.t., di sfuggire alla maledizione del “mal’aere”; inoltre, in maniera assai virulenta tali effetti si palesarono nel 1496, proprio per le particolari condizioni che si realizzarono in quell’estate. Infatti le morti del conte di Montpensier e di Ferrandino d’Aragona, avvenute per una di quelle strane coincidenze di cui è piena la storia a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, non possono essere imputati ai frutti mangiati in abbondanza dall’uno, ovvero agli eccessi sessuali dell’altro, com’è stato scritto, ma piuttosto alla infezione malarica contratta nel corso dell’assedio, il quale si svolse proprio nel periodo in cui l’infezione raggiungeva nella città il punto più alto.
Secondo Nicola Tecce, medico condotto della cittadina ai primi del Novecento, la malaria ad Atella si manifestava col seguente andamento: “col biancospino pungente fiorisce nel marzo la malaria lieve, si associa alla fine di maggio l’infezione estivo-autunnale … la curva si eleva nel giugno e discende verso la fine di luglio; si rieleva man mano poi nell’agosto, raggiunge il fastigio nel settembre e primi di ottobre per acme delle (infezioni) estivo-autunnali…”. L’insorgenza della infezione era favorita dalla particolare posizione geografica della città, dalla natura e dalla storia geologicadel suo territorio.
Posta nel punto più basso di una conca del fondo pressoché pianeggiante (l’antico paleolago creatosi in seguito alla formazione del Vulture), circondata da monti che la riparano dai venti settentrionali, Atella ha un territorio, ricco di sorgenti, composto per lo più da terreni argillosi, e quindi poco permeabili. Questa la causa dell’umidità del suo clima. “… in primavera e in autunno … – scriveva nel 1903 Francesco Martirano -, ma anche in estate, scendendo da Rionero nella sottostante Atella, si vede al mattino, in fondo alla vallate dove sorge il paese, una densa nebbia che avvolge ogni cosa e par che stia ancora ad indicare i confini dell’antico bacino lacustre, che sono oggi quelli della zona malarica, o per lo meno del territorio dove la malaria è più intensa”. Essendo lambita da una serie di corsi d’acqua, veniva “… igienicamente danneggiata … dall’umidità che costante sprigionasi dalla fiumara … ed affluenti … dal caldo estenuante dei mesi estivo-autunnali … dallo scirocco afoso … Queste condizioni climo-telluriche… rappresenta(va)no l’ optimum biologico dell’habitat delle larve dell’anopheles, determinando la persistenza e virulenza dei parassiti malarici, fiaccando non poco e predisponendo l’organismo umano alle recidive”. L’intervento dell’uomo poi, nel corso del tempo, aggravò tali condizioni. In particolare, la diffusione della cerealicoltura, imposta in certi periodi dall’aumento della pressione demografica sul territorio e resa conveniente dall’alta produttività nei primi anni di messa a coltura, si realizzò, infatti, a danno dei boschi, delle macchie e dei saldi, che caratterizzavano il paesaggio circostante la città, soprattutto in passato. Solo l’avvento del d.d.t., oltre al progressivo miglioramento delle condizioni igieniche ed economiche, hanno portato alla scomparsa dell’infezione.
La nascita del Comune di Atella
Il Comune di Atella nasce nell’anno 1773, con la quale terminò il periodo feudale e iniziò quello democratico.
A seguire gli atti della nascita fu il notaio Giuseppe Caroppoli, il primo Sindaco di Atella fu Pasquale Di Gilio e il primo Municipio di Atella era situato in Via Luisa Palazzo De Robertis, sede anche della Scuola cittadina.
Cosi come viene perfettamente citato in una importante pubblicazione “Atella – vista da Mastro Silvio” (scritto da Silvio Di Pasquale – anno 1973), a ricordare i 200 anni di storia del Comune di Atella, venire a capo degli ultimi due secoli di vita cittadina non è stato un lavoro semplice.
Infatti, Mastro Silvio sostenne che, la difficoltà nel reperire tali informazioni, era dovuto sia alla poca chiarezza dei registri conservati in Archivio e sia a causa della mediocre cultura di quei pochi atellani, che erano stati autorizzati ad effettuare le prime registrazioni, all’inizio delle attività comunali.
Tanto disordine lo crearono anche i terremoti che da sempre hanno flagellato il nostro territorio e anche, continua Mastro Silvio, probabili manomissioni e saccheggi di documenti dell’epoca.
Una più puntale e accurata conservazione degli atti e dell’attività amministrativa si verificò con l’arrivo dell’Unità d’Italia.
Il Brigantaggio ad Atella
I fenomeni del brigantaggio e dell’emigrazione furono le uniche possibilità, per le masse meridionali, di sfuggire alla cosiddetta “miseria crudele” che investì la seconda metà dell’Ottocento.
Il brigantaggio coinvolse all’incirca un centinaio di atellani, durante le “reazioni” della primavera del 1861. Tra i più popolari personaggi briganteschi atellani ricordiamo Giuseppe Caruso (luogotenente del capo dei briganti), Nicola Lardieri e Felice Di Gilio. Le vicende brigantesche, che riguardarono la comunità atellana, iniziarono con “l’insurrezione lucana” del 1860. L’insurrezione, definita come “Epopea brigantesca”, si scatenò con l’intento di opporsi al trapasso dal regime borbonico a quello unitario del Regno d’Italia. Inoltre molti dei borghesi del paese si dichiararono anch’essi contrariati all’idea dell’unificazione, per paura di perdere i privilegi acquisiti, a differenza della maggior parte dell’elettorato atellano che si sarebbe espresso favorevolmente all’unità, con il Regno d’Italia.
Il 7 aprile 1861 scoppiarono le prime reazioni filo-borboniche, a seguito di un summit tenutosi presso il convento di S. Maria degli Angeli tra Carmine Crocco, un capitano “francese, un capitano napoletano e un tenente siciliano”. Il convento divenne la “centrale operativa” del movimento legittimista del melfese. L’adunata collettiva dei briganti, carcerati evasi e idealisti legittimisti filo-borbonici, si svolse nel Castello federiciano di Lagopesole, Scelsero come simbolo di riconoscimento una coccarda rossa dei Borboni. Il 13 aprile 1861, ci fu un noto scontro nella cittadina atellana. Il Sindaco De Martinis si allarmò, a seguito di voci che circolavano, su un probabile arrivo delle Guardie Nazionali da Rionero, con l’intento di saccheggiare, disarmare il paese e disonorare le famiglie. Così il Sindaco consigliò a tutti gli uomini di armarsi e vegliare la cittadina, già dalla notte del giorno prima.
Quel giorno del 13 aprile, effettivamente, apparvero le truppe alle porte di Atella intente ad attraversare la cittadina, quando vennero accolti da una pioggia di proiettili provenienti dai vani dei palazzi. Ci furono due morti e sette feriti. Solo successivamente si seppe che erano le guardie di ritorno da Rionero per contrastare l’arrivo dei briganti, che a loro volta non si presentarono. Il passaggio delle guardie da Atella, fu solo al fine di raggiungere i paesi di provenienza, delle varie rappresaglie. Il capitano della Guardia Nazione di S.Fele tale Francesco Stia, sostenne che “mentre credevamo penetrare in paese amico, vi trovammo dapprima un silenzio di tomba, e poscia il più vigliacco e sfacciato tradimento per lo preconcetto disegno sacrificare i valorosi accorsi in loro soccorso, e specialmente la mia colonna, la quale appena ebbe messo piede nel paese servì di bersaglio alle fucilate di quei traditori Atellani…” e continuò sostenendo che “mi fu detto in seguito…che ciò succedeva con maggior accanimento dalle case de’ signori Saraceno e Martino”. Cosi Pasquale Saraceno e Angelo Maria De Martinis vennero accusati dell’agguato, e risposero al capitano delle guardie di S. Fele, affermando che il tutto era stato inventato. Il primo sostenne che, quel giorno, era diretto a Rionero dove soggiornava e anche le guardie lo videro; mentre il secondo sostenne che la posizione della casa de’ de Martinis, in mezzo la piazza, era fuori la linea della strada percorsa dalle truppe. Anzi il De Martinis disse ancora che, nei giorni a seguire, si verificarono dei saccheggi, in alcune case del paese, eseguiti dalle Guardie Nazionali di S. Fele e ciò “poneva la Guardia di S. Fele a paro della banda di Crocco”. Insomma, di quel giorno, si raccontarono varie versioni dell’accaduto, come quella di Giuseppe Saraceno e di Nicola Telesca (capitano delle Guardie Nazionali di Avigliano), entrambi presenti all’accaduto. Il Telesca sostenne che Stia, con le guardie di S. Fele e Muro, si diresse verso il Camposanto e non attraversò la cittadina, a differenza delle guardie del medesimo Telesca, quelle di Ruoti e del Battaglione Lucano, che fecero da bersaglio alle fucilate. Altro, invece, raccontò Saraceno. Infatti, disse di aver avvistato un conoscente tra le guardie, a cui si avvicinò per offrirgli un caffè, ma poco più distante entrambi si accorsero che alcune guardie malmenavano un uomo. L’amico intervenne, anche sotto la preghiera del Saraceno, che allontanò lo sventurato dalle mani degli aggressori. Ci fu un momento di confusione in quel gesto e ad un tratto si avvertì un colpo di pistola che esplose dall’arma dell’amico di Saraceno. In lontananza si sentirono altri colpi di fucile e Saraceno venne a sapere che le fucilate arrivarono dalla casa di Giuseppe Caruso e di altri Atellani. Caruso venne così accusato di omicidio per la morte di alcuni militi, tentò di fare chiarezza sull’accaduto, sostenne che si trovava presso il proprio padrone Mauro Saraceno, quel giorno, e cento persone per bene avrebbero garantito della sua innocenza. Da lì in poi, nonostante innocente, decise di unirsi ai briganti di Carmine Crocco, per sfuggire alla fucilazione.
La posizione della borghesia pian piano iniziò a capovolgersi, approfittando della guerra brigantesca, delle tensioni sociali e della miseria nelle nostre campagne, in virtù anche delle notizie sul successo dei Garibaldini nel Meridione, per cui si iniziò a ragionare sulla convivenza con i Savoia del Regno d’Italia. Giuseppe Caruso, sicuramente consigliato da Giuseppe Saraceno, decise di collaborare con il colonnello Pallavicini alla causa dei Savoia, ma solo se fosse stato lui a guidare personalmente le Guardie Nazionali contro gli agguati mortali dei briganti e per stanare i tanti rifugi disseminati sul nostro territorio. Così i protagonisti di questi importanti anni di storia, per la prima volta, furono i nostri contadini. Peccato che, da lì in poi, furono comunque costretti a cercare migliori fortune emigrando verso il Nuovo Continente, poiché nulla cambiò per loro, dovuto anche alla crisi agraria che si abbatté negli anni ottanta sulle regioni del Sud.
Documenti: